quaderni di management 
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Lo sviluppo o è sostenibile o non è sviluppo

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Giancarlo Oriani


 

Dopo il focus sulla Responsabilità Sociale delle Aziende [qdm 4/2003], la nostra rivista torna a porre attenzione a tematiche di grande importanza sociale.
L’ambiente: un paio d’anni fa qualche leader politico illuminato diceva che il problema ambientale non esisteva. Purtroppo gli studi scientifici più recenti e seri hanno dimostrato che quei leader mentivano sapendo di mentire (anche perché i loro obiettivi non erano - e non sono - il benessere collettivo).
Ma per un manager che sia invece veramente interessato alla responsabilità sociale, sua e delle propria azienda, la questione ambientale deve essere affrontata con serietà, soprattutto per “consegnare alle nuove generazioni un futuro migliore” come dice Danilo Bonato al termine dell’introduzione al focus da lui coordinato.
Anche in questo caso, come in molti altri casi più strettamente aziendali assai noti ai nostri lettori, il problema non è la mancanza di tecnologia. Citando ancora Bonato “in effetti, se applicassimo su larga scala le tecnologie esistenti per usare con più efficienza l’energia e per sviluppare le energie rinnovabili, potremmo facilmente raggiungere e superare gli obiettivi di Kyoto, rafforzando contemporaneamente le economie globali”.
Perché allora la situazione sta continuamente peggiorando?
Sicuramente i paesi in via di sviluppo, sia a causa delle loro esigenze di crescita, sia della carenza in essi di soluzioni ecologiche, stanno avendo un impatto sempre più pesante sull’ambiente. Ma probabilmente vi sono anche altri fattori, più specificamente culturali. La crescita viene da sempre vista in termini quantitativi: un paese è tanto più “ricco” quanto più cresce il suo PIL. L’esplosione dei consumi è positiva, perché “fa girare l’economia”. Anche la crescita demografica è positiva e va perseguita, perché come minimo serve a pagare le pensioni, e magari anche ad evitare che “loro” siano numericamente di più (inutile chiedersi chi siano questi “loro”: in privato molti lo dicono, eccitati da giornalisti indecenti). Ma qual è l’impatto della crescita del PIL, dei consumi, del numero di persone sull’ambiente? Qual è l’impatto sulla qualità della vita, se non la si misura solo in termini di reddito economico?
Da tempo alcuni economisti stanno studiando nuovi indicatori di crescita, che tengano conto anche di fattori qualitativi. Perché, in sintesi, come dice il ministro Pecoraro Scanio nell’intervista pubblicata su questo numero di qdm, “lo sviluppo o è sostenibile o non è sviluppo”. Il cambio di marcia sui problemi ambientali, però, non potrà forse avvenire nell’ambito dell’attuale modo di pensare, che privilegia in modo acritico la crescita quantitativa ed il guadagno personale. Finché le motivazioni più strettamente “biologiche” (l’uomo è un animale e per sopravvivere ha bisogno del suo habitat naturale) ed “estetiche” (un bosco è più bello di un centro commerciale) dovranno essere affiancate dall’evidenziazione della convenienza economica di certe soluzioni o azioni eco-compatibili, si rimarrà nell’ambito del vecchio paradigma di pensiero (che legittimerebbe l’inquinamento se crea occupazione, o la cementificazione se c’è crescita demografica). E’ necessario invece sviluppare una nuova cultura laica della qualità della vita e dello sviluppo, perché siamo autorizzati a dire, visti i risultati, che tutte le altre ideologie occidentali su questo terreno hanno fallito.
Tornando a questioni più di breve termine, chi può fare qualcosa e subito?
La classe politica, a livello mondiale, sembra un po’ abulica. L’Europa è la più virtuosa (il che rilancia l’orgoglio di essere europei, in barba a chi parlava di continente vecchio). Purtroppo l’Italia si distingue come al solito in negativo. Ad esempio, abbiamo ricevuto 52 procedure d’infrazione per la non corretta applicazione delle direttive ambientali, contro le 21 della Francia e le 13 della Germania. Si può quindi sperare nell’azione dei singoli? L’azienda ed i manager possono assumere un ruolo importante. Come ci informano Apuzzo e Bonato nel loro articolo “oggi bisogna riconoscere che le corporation americane hanno cambiato atteggiamento, introducendo codici di autodisciplina e tetti sulle emissioni di gas serra.”. Vi è però anche ipocrisia: “si investiva e si investe in comunicazione ambientale perché fa bene all’immagine dell’azienda, ma anche per sopperire ad oggettive carenze di sostenibilità e compatibilità ambientale dei processi produttivi”. Come in tutti i campi, l’atteggiamento etico dei singoli fa la differenza. Inoltre il mercato è efficiente per la generazione e lo scambio di beni e servizi, ma genera delle diseconomie esterne al mercato stesso (come l’inquinamento, i disboscamenti, la cementificazione, i rifiuti, ecc.). Sono quindi necessarie regolamentazioni ed incentivi. E quindi rientra in gioco il ruolo della politica, che, nel breve, può agire forse solo sull’incentivo economico. Citando sempre Apuzzo e Bonato “se da un lato ci si può attendere che con il passare del tempo il numero di consumatori che tendono a premiare chi offre prodotti e servizi a basso impatto ambientale possa aumentare, dall’altro sarebbe opportuno trovare nuovi modi per far costare di meno o far rendere di più il business “verde” rispetto a quello tradizionale”.
In questo numero ospitiamo l’intervista a Aldo Romano, Presidente e Amministratore Delegato STMicroelectronics, unica azienda italiana citata come ambientalmente virtuosa nel report di Citigroup menzionato nel nostro focus sulle green policies. Si tratta solo di un caso fortunato, nel senso che l’intervista a Romano non era stata pensata in relazione al focus. Da essa emergono molti elementi interessanti di riflessione. Tra essi ne segnaliamo tre: la (non) capacità di competere su scala mondiale delle aziende italiane; l’importanza del legame strategico coi clienti; la doppia funzione della ricerca e sviluppo.


Buona lettura