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Passato e futuro

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Giancarlo Oriani


 

L’articolo di Manisera ci spiega in modo esauriente il percorso che il Giappone sta facendo per cercare di uscire dalle zone d’ombra in cui è ristagnato negli ultimi anni, un percorso in bilico tra passato e futuro. La strategia per rilanciare i sistemi produttivi giapponesi consiste principalmente nello “stabilire un profondo rapporto con il personale del genba” e nel “riportare le persone al centro delle attività aziendali”. Per quanto si investa in tecnologia ed automazione costose, “se vengono meno la voglia e la capacità di continuare a fare ‘kaizen’, mancherà il tocco finale di perfezione nei prodotti”. Al tempo stesso, la delocalizzazione in Cina sta vivendo un momento di ripensamento. I problemi evidenziati sono gli stessi che le aziende occidentali conoscono molto bene: la necessità di proteggere la propria tecnologia, il rischio di contraffazione dei propri prodotti, la mancanza di tutela dei diritti delle aziende private, la maggiore flessibilità che uno stabilimento “snello” offre, gli investimenti nella formazione del personale che se ne vanno in fumo a causa dell’eccessiva mobilità delle persone, ecc. Il parziale ritorno in patria è anche un ritorno alle origini (la rivitalizzazione del Toyota Production System, con le sue caratteristiche di snellezza: individuazione ed eliminazione degli sprechi, metodo kanban, riduzione delle scorte, flessibilità e tempi rapidi, evasione tempestiva degli ordini, kaizen, pokayoke, ecc.) e, più in generale, un ritorno alla centralità del processo logistico-produttivo (fenomeno cui si assiste in tutto il mondo, non solo in Giappone). “Per questo motivo, le aziende giapponesi più attente riportano in auge il lavoro manuale e definiscono sistemi premianti che aiutano a migliorare competenze e abilità tecniche degli operatori.” Devono essere nuovamente valorizzati i capi produttivi di prima linea, anche per trasferire verso le nuove generazioni quell’enorme know-how proprio di quei lavoratori, ora in via di pensionamento, che hanno supportato il boom giapponese degli anni settanta-ottanta. “Gli operai giapponesi, vengono invitati a tornare a ciò che è fondamentale nella fabbricazione - back to the basics -, alle tecniche che i loro padri padroneggiavano così bene.” Lo sguardo al passato si coniuga peraltro con quello al futuro. Bisogna infatti “investire anche per lo sviluppo tecnologico, per la riduzione dei tempi di sviluppo dei prodotti, per l’Information Technology”. Coesistono la “volontà di essere fedeli alla tradizione ma anche il proposito di volere cambiare ed innovare”. Per questo l’autore ritiene che “l’industria giapponese ... può essere di nuovo un modello di eccellenza anche per l’Italia”. Come testimonierebbe la ripresa dei tour di visita agli stabilimenti giapponesi.
Decisamente orientato al futuro è invece il tema del web 2.0, descritto nell’articolo di Quintarelli.
Il passaggio è epocale: mentre nel web 1.0 il modello di business è ancora tradizionale, ed internet viene utilizzato per una comunicazione ad una via dal fornitore al consumatore (ti faccio conoscere in modo semplice, rapido ed economico il prodotto che tu compri proprio perché ne vieni a conoscenza in rete), nel web 2.0 si passa ad un modello di business diverso, che sfrutta appieno il potenziale delle reti (ti presento ciò che dovrebbe interessarti perché altri sono interessati - vedi il PageRank di Google ed Amazon; favorisco lo scambio di informazioni nella rete - vedi Google AdSense e LinkedIn; creo la conoscenza dalla rete autoorganizzata - vedi Wikipedia).
Anche orientata al futuro, per le modalità di approccio, ma su temi antichi come l’uomo, è la neuroleadership, oggetto della sezione “Cosa ci aspetta nel futuro”. A valle del “First Global Neuroleadership Summit” sono stati intervistati David Rock (consulente) e Jeffrey Schwartz (neuroscienziato), congiuntamente ad Al Ringleb (direttore della Cimba University), per approfondire i temi legati alla neuroleadership, già introdotti con l’articolo “La neuroscienza della leadership” pubblicato sul numero 25/2007.
L’articolo di Eos descrive un progetto avente per obiettivo lo sviluppo di un percorso di apprendimento che mette insieme aula e videogioco, sviluppato ad hoc su argomenti di programmazione e controllo di gestione, destinato a cosiddetti “non specialisti”, operanti nelle varie aree aziendali. Un ulteriore passo in avanti nella ricerca di strumenti formativi sempre più efficaci e piacevoli. Questa metodologia risulta particolarmente innovativa, in quanto si basa sull’utilizzo di un motore di videogioco esistente per creare un modello “object oriented”, che si coniuga con le scelte relative al processo di progettazione didattica. Simulazione ed aspetto ludico diventano centrali per favorire l’apprendimento. Infatti:
“Il corretto gradiente ludico del videogioco ha reso piacevole l’apprendimento e la sperimentazione di concetti teorici”.
L’articolo di Beltrami di IBM focalizza l’attenzione su un tema annoso: servono le regole in azienda?
O meglio, “quante” ne servono? “Questo tema, discusso da tempo, trattato in tutti i suoi aspetti e ‘sezionato’ in tutti i modelli manageriali, è sempre più, o se vogliamo di nuovo, di attualità in un mondo in continuo cambiamento, dove la flessibilità e la velocità diventa l’unica via per sopravvivere e le organizzazioni sono consapevoli che norme e rigidi controlli risultano praticamente inefficaci e spesso deleteri”. Per l’autore le regole servono senz’altro: “probabilmente [un’organizzazione senza regole] sarebbe un grande caos, una continua confusione, un’incontrollabile anarchia che finirebbe per sgretolare anche il più granitico gigante.” Però, come sempre, in medio stat virtus: “spesso le regole degenerano, proliferano e si ramificano, o quantomeno così vengono percepite dall’organizzazione: questo fenomeno prende il nome di burocrazia.” Il suggerimento per superare questo dilemma è di “pensare all’azienda ideale di oggi come ad un grande teatro nel quale le persone, più che un copione hanno un canovaccio (una vision condivisa ed un suggeritore) ed hanno tutte grandi capacità interpretative (competenze di business).” Logica che secondo noi è molto vicina alle teorie della complessità e dell’autoorganizzazione ed alle loro modalità di gestione.
Le organizzazioni ad alta affidabilità (HRO, High Reliability Organisation) che operano in ambienti ad alto rischio, ma hanno alti livelli prestazionali accompagnati da alti livelli di sicurezza, sono un esempio di aziende in cui regole ed iniziativa devono coesistere. L’articolo di Bill Fear, nella sezione “Letture straniere”, vuole fornire una panoramica dei loro concetti chiave, e una mappatura delle loro competenze.
La tesi centrale dell’articolo di Pedrazzini, di Newton Management Innovation, è “come costruire il proprio futuro partendo dalle competenze attuali, quelle competenze che hanno magari portato al successo ma stanno diventando obsolete o comunque non garantiscono un vantaggio sui concorrenti.” Questi temi vengono analizzati alla luce della teoria della complessità e dell’innovazione e di due casi aziendali.
I docenti del Politecnico di Milano, guidati da Sianesi e Perego, ci riportano a temi legati alla logistica. Con due articoli: il primo indirizzato a capire in che misura la Supply Chain contribuisce al successo delle aziende del settore del lusso. In particolare l’articolo presenta i risultati del confronto tra le imprese del settore lusso (13 aziende italiane) e quanto proposto dalla letteratura sulle strategie di Supply Chain. Il secondo vuole invece illustrare le soluzioni ICT per il trasporto merci - dalle soluzioni software per la pianificazione alle tecnologie di comunicazione satellitare e cellulare, dai sistemi RFId alle reti di sensori. Emergono luci e ombre: da un lato la decisa adozione delle soluzioni più tradizionali, ad esempio per lo scambio documentale tra aziende, dall’altra una minore e ancora deludente diffusione delle applicazioni più innovative, tipicamente basate su tecnologie Mobile&Wireless.