quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
  < Torna all'indice

Il rasoio di Occam

Giancarlo Oriani


 

Nel 1300 il frate francescano Guglielmo di Occam formulò il principio secondo il quale è sempre preferibile utilizzare la formulazione o la spiegazione più semplici di un fenomeno: “a parità di fattori la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta”. Tale principio è noto come il rasoio di Occam, ed influenza da allora il pensiero filosofico e scientifico.
Non è certo questo l’ambito in cui discutere la validità dell’ipotesi, che si scontra con la semplice considerazione che non si può dimostrare che la spiegazione più semplice sia sempre quella vera. E’ certo però che, data la razionalità limitata dell’uomo, sistemi di rappresentazione ed interpretazione dei fenomeni semplici sono spesso nella pratica più efficaci.
I manager si trovano tutti i giorni a dover trattare con sistemi molto complessi (le organizzazioni, gli ambienti competitivi). Come fare allora? Affrontare la complessità con la complessità (legge di Ashby) o cercare di ridurre la complessità? Forse questo problema è alla radice della scarsa applicazione degli strumenti della complessità nella pratica  manageriale di tutti i giorni?
Quaderni di management ha fin dalla sua nascita dedicato particolare attenzione alle logiche della complessità applicate al management. Ma, come dice giustamente Cravera nel suo articolo, “pur essendo ricca di spunti interessanti e innovativi, la letteratura su management e complessità ha indubbiamente un’area di forte debolezza: la mancanza di casi aziendali reali”.  Il suo articolo cerca di superare tale limite proponendo un caso aziendale reale, quello di Apoteca Natura. Si vedono così all’opera le logiche eterarchiche ed autopoietiche proprie dei sistemi auto-organizzati. Secondo i principi cari alla complessità, il manager non gestisce un sistema complesso, semplicemente perché non può farlo, mentre lo può indirizzare, “coltivare”, per usare un termine particolarmente appropriato introdotto da Wenger. Per far ciò utilizza però strumenti semplici, più semplici di chi voglia gestire in senso tradizionale.
La complessità è anche alla radice del tema del Supply Chain Risk Management, trattato nell’articolo di Crippa. Anche in questo caso si evidenzia una distanza tra elaborazione teorica ed applicazioni pratiche, ed anche in questo caso si vuole cominciare a colmare questa distanza. Per modellare la realtà complessa dei rischi legati alla supply chain si ricorre ad un altro dei temi cari a quaderni di management sin dal suo inizio: la dinamica dei sistemi. E proprio in quest’ambito  l’autore dell’articolo cita esplicitamente il rasoio di Occam: bisogna rappresentare una realtà complessa, senza creare un modello così complicato da diventare, nella pratica, inutilizzabile; bisogna saperla rappresentare semplicemente per dare ad un manager, come già detto dotato di razionalità limitata, la possibilità di cercare di agire su di essa, anziché di rimanere basito.
Sempre nell’articolo di Cravera compare la rete (soft network) come descrizione dell’organizzazione destrutturata delle farmacie. La rete come logica di rappresentazione ed interpretazione di processi non strutturati è ancor più centrale nell’articolo della sezione “Letture straniere”.  Esso si occupa del tema dell’innovazione. Il modello presentato (Tre E), che vuole spiegare il processo d’innovazione e le caratteristiche che si devono incontrare per un’innovazione di successo, si muove nella prospettiva delle reti sociali. Lo stesso CSC (Corporate Social Capital) che vuole essere una misura del capitale sociale aziendale, cioè dell’insieme di quegli elementi che pur intangibili costituiscono la base della forza competitiva nel tempo dell’azienda, è composto di una serie di fattori, uno dei quali, il capitale strutturale, utilizza anche gli strumenti dell’organizational network analysis per definire i ruoli critici per l’innovazione di connettore centrale e di intermediario, così come per localizzare le aziende che si trovano alla periferia delle reti d’innovazione e che sono spesso le fonti di nuove idee, quelle che stanno al centro, e quelle che svolgono un’intermediazione di conoscenze tra le prime e le seconde.
L’articolo è di straordinario interesse per almeno due motivi: 1. propone una prima idea di strumento (l’indice CSC) per valutare il capitale intangibile, che vada al di là della banale lista di competenze e brevetti, per valutare anche la rete di relazioni in grado di attivare quel processo sociale che è l’innovazione; 2. definisce le caratteristiche strutturali di rete e gli attributi degli attori più efficaci perchè un sistema complesso di aziende possa auto-organizzarsi verso processi intrinsecamente destrutturati di innovazione.
Quaderni di management ha dedicato, soprattutto nei suoi primi numeri, molta attenzione anche alla dinamica dei sistemi complessi. Ha organizzato un convegno sul tema, nel 2003. Chi vi scrive ha pubblicato nel 1995 un libro sul reengineering. E’ quindi con grande entusiasmo che vi presento in questo numero un articolo di Bosani e Verga proprio su reengineering e dinamica dei sistemi combinati insieme. Da questo articolo trapela un approccio per certi versi opposto a quello di Cravera: tramite la modellizzazione dell’organizzazione si cerca di prevedere il futuro, per poter gestire “ingegneristicamente” il cambiamento. Trapela la volontà di dare una risposta alla vecchia aspirazione manageriale di conoscere il futuro e controllare l’organizzazione. E’ lo stesso spirito che ritroviamo nella modellizzazione descritta da Crippa, dove l’ambito è però più circoscritto e i livelli e i flussi più facilmente quantificabili. Nell’arrticolo di Bosani e Verga  l’ambito è più ampio, i livelli e i flussi meno univocamente misurabili, i legami causa effetto più complicati. Peraltro, come già ci disse Vennix nel numero 7/2004, il vero valore aggiunto non sta tanto nella precisione della previsione, quanto nel fatto che, riunendosi per modellare la realtà, i membri del gruppo di lavoro si scambiano idee, arrivano a condividerle, “vedono” la complessità del processo allo studio. Come dicono gli autori di questo articolo il lavoro “è stato apprezzato per aver reso visibile una conoscenza sistemica utile ai fini della comprensione della portata del problema e dell’ambito di decisione”.
L’articolo di Garbellano, di Istud, si occupa del fenomeno della crescita del coinvolgimento dei manager nelle attività di formazione, nell’ambito delle cosiddette Corporate University. “Alla base della costituzione [di queste] vi è la necessità di governare i processi di difesa, alimentazione e rinnovamento del know how individuato come determinante per preservare e rinforzare i vantaggi competitivi e l’identità aziendale”. Infatti in esse sono centrali la promozione e la gestione di “reti orizzontali, altamente connesse e collaborative, che spesso coinvolgono soggetti esterni alle imprese”, il miglioramento dell’integrazione “tra apprendimento formale e informale e formazione che si sviluppa on the job” e la integrazione “tra le diverse generazioni presenti in azienda”. Dunque, la Corporate University, così concepita, non si occupa del puro e semplice trasferimento di conoscenza formalizzata, ma utilizza molti degli strumenti propri del knowledge management, sia per quanto riguarda il trasferimento di conoscenza  (trasferimento di conoscenza da esperti a novizi) che la creazione di nuova conoscenza (fecondazione incrociata tra discipline ed esperienze diverse). Cooptare i manager, anziché formatori di professione, magari esterni,  diventa quindi ineludibile.
Intrigante, infine,  l’articolo di Chiappiello, che afferma senza mezzi termini ciò che non tutti ammettono liberamente: cioè che spesso i manager che causano il declino delle organizzazioni consolidano le proprie posizioni, mentre professionisti migliori e più capaci,  che non si riconoscono nell’organizzazione creata da quei manager, se ve vanno dando origine in questo modo ad ulteriori peggioramenti.