quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
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Enterprise 2.0, ovvero dell’intelligenza collettiva?

Giancarlo Oriani


 

Si è di recente tenuto a Milano un interessante convegno, organizzato da Open Knowledge, su Enterprise 2.0. L’obiettivo era di fare il punto della situazione ed investigare le varie sfaccettature dell’impatto del web 2.0 sull’azienda. quaderni di management ha il piacere di proporvi una sintesi degli interventi più interessanti del convegno.
Secondo i relatori stiamo attraversando un momento di grande smarrimento di valori e di modelli manageriali. Il modo in cui l’organizzazione aziendale è stata sinora concepita non funziona più. Grazie alla tecnologia si stanno configurando nuove situazioni che rendono il paradigma taylorista e meccanicista, ancora presente nella mente della maggior parte dei manager, completamente obsoleto. Prevale il concetto di rete, sia interna (la community), sia esterna (il “social customer”); si affermano curve a rendimenti marginali crescenti, che rendono obsoleto il concetto classico di rendimento decrescente (per arricchire il ragionamento si rimanda al focus del numero 34/2008 in cui si affrontava il tema del superamento della curva gaussiana a favore della legge di potenza nei moderni sistemi complessi); si scopre che la comunicazione dei contenuti è molto meno importante della rete di comunicazione, e che quindi è meno importante controllare gli asset interni aziendali, codificandoli e immagazzinandoli in qualche archivio, che controllare i flussi di comunicazioni tra le persone.
In realtà il convegno non prospetta necessariamente un cambiamento di paradigma, ma (almeno in alcuni interventi) un affiancamento “dell’organizzazione ‘tradizionale’, di cui resta sempre il bisogno per la necessità di definire responsabilità, piani e compiti” alle “nuove forme organizzative, della rete informale auto organizzata, che sono necessarie nei momenti in cui quello che si deve fare non è previsto dal processo, dal ruolo o dalla mansione” (Scotti). Questa convivenza di prescrizione tradizionale e di rete auto organizzata, mi sembra sia collegabile al tema della convivenza tra snellezza e complessità citato nell’editoriale del numero 33/2008. Probabilmente l’efficacia delle nostre organizzazioni contemporanee dipende dal saper far convivere questi due “paradigmi” e dal sapere quando serve l’uno e quando l’altro.
Gli interventi del convegno indicano alcune caratteristiche importanti di queste nuove forme organizzative: le infrastrutture di collaborazione emergente; il controllo distribuito; processi di innovazione che fanno affidamento sulla rete e sull’esplorazione e tralasciano forme di pianificazione; il ricorso in un qualche modo all’“intelligenza collettiva”.
Già venti anni fa Oticon con la sua “spaghetti organisation” propugnava un modello organizzativo nel quale i progetti venivano valutati importanti e quindi avviati non da dei comitati guida, ma dai ricercatori, che semplicemente sceglievano di lavorare sui progetti che ritenevano più promettenti.
Patel si scusa col marketing, quando stimola una comprensione dei bisogni dei clienti ed una conseguente individuazione di beni e servizi più “sociale”, in rete, e meno legata a ruoli specificamente responsabili.
Ma è sempre efficace questa intelligenza collettiva? Kolind, leader di Oticon ai tempi della grande trasformazione organizzativa, ad anni di distanza, nell’intervista pubblicata sul numero 3/2003, ci diceva “personalmente ho ritenuto, e lo penso tuttora, che lasciare libertà di decisione allo staff sia un modo molto efficiente di rispondere velocemente al cambiamento. Forse oggi, pur ammettendo che sia una cosa giusta lasciare che lo staff decida, ritengo che per giungere a decisioni migliori sia necessario l’input del management perché ci sono cose che il management riesce a vedere a cui altre persone non possono arrivare. Il management possiede punti di vista più completi, ha una percezione più ampia delle situazioni, della concorrenza, della tecnologia”. Lo stesso dubbio, questa volta verso la rete esterna, mi pare emerga nell’intervento di Lewis, quando dice che lo sviluppo dell’I-phone da parte di Apple fu un processo chiuso, anche perché “non potete pretendere dai clienti il concetto di un nuovo prodotto, quando non hanno neppure idea che ne esista la possibilità”, o quando commenta “Il mulino che vorrei”. La rete sembra dunque essere il luogo dell’innovazione, ma in un certo senso “governata”, e non come mera espressione di una intelligenza collettiva di cui emergono invece i limiti.
   quaderni di management torna sul tema del lean applicato alla sanità, già trattato in un articolo pubblicato sul numero 31/2008. Questo articolo evidenzia molto bene come le logiche snelle che provengono dal manifatturiero possono essere applicate a processi del tutto diversi, come quelli di un ospedale. Tra le varie interessanti analogie ne vogliamo rilevare alcune:
a) la presunta imprevedibilità. Si evidenzia che persino il volume di accessi al pronto soccorso può essere in qualche modo previsto, e che talvolta la turbolenza è di origine endogena.
b) La presenza di “monumenti” che generano code e sono terreno ottimale per l’applicazione del concetto del one piece flow.
c) La separazione tra attività semplici e complesse, per applicare alle prime concetti “sacri” del lean, quali il flusso, gli standard, la gestione a vista.
   La sezione dedicata alle interviste ospita questa volta uno dei guru internazionalmente riconosciuti della supply chain, il professor Simchi Levi dell’MIT. Selezioniamo almeno due concetti chiave: guardare ai costi totali di supply chain, perché in tal modo si scopre che certe ridondanze di magazzino, così come l’utilizzo di logiche push anziché pull (soprattutto quando aumenta l’incidenza dei costi di trasporto), consentono di ridurre di fatto i costi totali; saper progettare la flessibilità, perché certe configurazioni di flessibilità ridotta consentono di ottenere gran parte dei vantaggi di una flessibilità totale senza sopportarne i costi.