quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
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Ricette e cuochi

Giancarlo Oriani


 

Inizia un nuovo anno, e quaderni di management si rinnova rinnovando i propri Comitati. Siamo sicuri che i nuovi membri, insieme a quelli “storici”, concorreranno ad arricchire ancora di più i temi e le angolature con le quali la nostra rivista vuole fornire un servizio a chi si occupa di management.
   Quest’anno inizia con una serie di articoli che, pur con sfaccettature diverse, toccano tutti un tema che è stato sempre molto presente negli articoli della nostra rivista: il tema delle nuove formule organizzative (la rete in particolare) e delle nuove modalità di pensare il management in un contesto complesso.
   L’articolo di Laurence Lock Lee e Cai Kjaer segue un percorso “classico” parlando di “innovazione organizzativa” (scusate l’ossimoro). Si sostiene che l’ambiente ordinato, di cui è un tipico esempio la linea di produzione manifatturiera, va bene per le gerarchie, mentre il nuovo ambiente richiede formule organizzative diverse. La comprensione della situazione e delle azioni da intraprendere passa, oltre che dall’introduzione di una diversa mentalità, anche dall’utilizzo estensivo di uno strumento cui la nostra rivista ha sempre dedicato molto spazio: l’Organizational Network Analysis.
In quest’ambito, una delle relazioni più interessanti da studiare, è quella di fiducia. Infatti, se processi complessi quali l’innovazione richiedono l’intensificarsi degli scambi informativi tra le persone, questi scambi non fluiscono se tra le persone non vi è fiducia. Come dicono gli autori, il funzionamento delle nuove forme organizzative “richiede di costruire fiducia”.
Gli autori ritengono indiscutibile la necessità del passaggio ad un nuovo management.
   Nello stesso filone di pensiero si situa nella sostanza l’articolo di Cravera, che reclama una nuova epistemologia per il management. L’autore richiama la classificazione di Snowden e Stanbridge (il modello della complessità del primo è ripreso anche nell’articolo di Lock Lee e Kjaer) dove si collocano nel primo quadrante, quello più “obsoleto”, il Process Engineering, che include Taylor, Porter, Hammer, e, si sospetta, anche gli approcci Lean; nel secondo e nel terzo il pensiero sistemico e la complessità matematica (quadranti che condividono la sensibilità alla fragilità della modellizzazione: a volte non si riesce fare il modello, e comunque il risultato della simulazione è molto - troppo - sensibile all’esattezza della quantificazione degli enti e delle relazioni); nel quarto la complessità sociale di Stacey.
   Incidentalmente vorrei segnalare una questione che compare all’inizio dell’articolo: se la colpa della crisi sia delle teorie (che non sono buone) o dei manager (che non le sanno applicare). Siamo davvero sicuri che sia un problema di implementazione delle ricette manageriali che esistono già? O forse sono proprio le ricette che dovrebbero essere riviste? Cravera propende per la seconda ipotesi, suggerendo di spostarsi dal primo quadrante verso gli altri.
E’ il solito annoso problema: è la ricetta sbagliata o la sua applicazione? Mi pare che però questo annoso problema finisca un po’ in un vicolo cieco: supponiamo che la ricetta sia quella giusta, e che tutti i manager la sappiano applicare correttamente. Che cosa succederebbe allora? Poiché la competizione è un gioco a somma zero, si dovrebbe arrivare necessariamente o ad un pareggio generalizzato e quindi si potrebbe dire che la ricetta non è (più) vincente, oppure comunque alla vittoria di qualcuno (che però potrebbe allora essere spiegata solo dal caso).
  La riflessione di Magrassi è invece molto più articolata. Molti autori hanno appunto prospettato queste nuove organizzazioni, in cui prevale la rete, non solo interna, ma “ampia” che travalica i confini aziendali e ridefinisce completamente i ruoli e i modi di lavorare. Una rete in cui prevalgono l’autoorganizzazione e l’emergenza. Si porta come esempio più avanzato lo sviluppo dei software open source, dove predomina la rete, l’eterarchia, la cultura della collaborazione, della condivisione e dell’apertura. Ma qual’ è la realtà dei fatti? Il giudizio di Magrassi è chiaro: “la nozione di un sistema coerente e funzionale che emerge da una folla di individui spontaneamente cooperanti, senza direzione dall’alto né supervisione, è infondata nel caso del software. Essa non rispecchia il modo nel quale il software, di qualunque fatta, viene prodotto.” Anzi, la forma organizzativa richiama ancora vecchi schemi: i tre metodi organizzativi utilizzati nel Foss sono: “il ‘dittatore benevolo’ (impiegato ad esempio per Linux Kernel e per Emacs), il dittatore a rotazione entro una rosa di addetti senior (il caso del software Perl), e il comitato progettuale (Apache Server)”.
Vorrei rimandare il lettore all’editoriale del numero 46, ed al relativo focus su Enterprise 2.0, per ricordare i dubbi espressi sull’“intelligenza collettiva”, e quindi su strumenti quali il “crowdsourcing” per l’innovazione.
   L’articolo di Martelli sulle strategie è una passeggiata nella storia del management e dei suoi modelli di pensiero, che può essere letto anche avendo presente le questioni sollevate negli altri articoli più sopra introdotti.
La strategia nasce, infatti, “quasi invariabilmente dalla necessità di adeguare il processo decisionale e la struttura di un’organizzazione all’evoluzione del contesto sia esterno sia interno”. Si tratta di realizzare piani sulla base di fattori esogeni. Mi pare ci si collochi ancora nel pensiero tradizionale: “la strategia è un disegno concepito dal gruppo imprenditoriale per modificare il programma di attività correnti in risposta alla evoluzione del mercato e dell’ambiente”. Ma col mutare dell’ambiente, l’elaborazione strategica muta. Nascono “nuovi strumenti mediante i quali le strategie aziendali possono essere concepite, elaborate, attuate e controllate … quali la competitive intelligence, la gemmazione di quest’ultima nei war gaming aziendali (in sostanza, l’uso dinamico della analisi dei concorrenti), gli scenari come formulazione di futuri alternativi, le simulazioni”. Qual’ è l’evoluzione futura della “strategia”? Ha senso parlare di stratega e di strategia? O esistono solo una strategia emergente o una gestione delle opportunità che nulla hanno a che fare con la pianificazione strategica classica? Speriamo che articoli futuri ci aiutino a capire sempre meglio cosa voglia dire fare (o non fare) strategia in un ambiente complesso ed imprevedibile.
   Infine abbiamo il piacere di presentarvi l’intervista ad un personaggio dalla storia davvero straordinaria: Jean-Christophe Iseux, primo membro non cinese del parlamento cinese. Egli ci racconta dell’evoluzione del mondo cinese, dal ruolo degli investimenti esteri per avviare lo sviluppo all’attuale obiettivo di internazionalizzare le aziende cinesi, e delle modalità di rapportarsi con i cinesi. Evidenzia la centralità della creazione di relazioni ed il ruolo dello scambio di favori e delle caratteristiche personali per questa creazione. Scopriamo anche che in tal senso noi italiani abbiamo, forse, qualche carta in più.

Buona lettura
                   
                    Nel prossimo numero:
                    • un articolo sull’applicazione delle logiche lean nei servizi;
                    • un articolo sull’organizzazione per l’innovazione.