quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
  < Torna all'indice

La resilienza

Giancarlo Oriani


 

Il focus coordinato da Crippa ospitato in questo numero si occupa degli impatti della crisi sulla “cassetta degli attrezzi” dei manager e sui loro modelli gestionali, con particolare riferimento alla supply chain, anche se alcune considerazioni hanno una valenza più generale.
Il concetto chiave è la resilienza. Secondo Crippa “progettare e gestire la resilienza a livello strategico e tattico è diventato l’imperativo per le imprese di successo del XXI secolo”. Ma cosa vuol dire progettare la resilienza? Vuol dire rendersi conto dei limiti del solo perseguire le efficienze interne e i processi ottimizzati. Bisogna invece “disporre di catene logistiche estese in grado di sopportare accelerazioni e decelerazioni improvvise … coinvolgendo anche un ridisegno dei rapporti di fornitura e l’accettazione di alcune ‘ridondanze mirate’”. La definizione di agilità e resilienza induce una riflessione sul rapporto tra la “supply chain resiliente” e la “lean supply chain”, anzi più in generale tra lo sviluppo di un’azienda agile e resiliente e un’azienda snella. Sono due concetti che si integrano o invece si contraddicono? E’ un tema che è comparso più e più volte nelle pagine di quaderni di management. Certamente i fondamenti di stabilizzazione della lean non sembrano essere centrali nell’azienda agile (dove, come evidenzia Crippa, “le ‘condizioni medie’ saranno sempre meno significative”), mentre le ridondanze mirate delle operations agili sembrano un po’ sprechi nell’ottica lean, anche se l’approccio lean stesso applica talvolta ridondanze, ad esempio con risorse produttive sovradimensionate per gestire le variazioni, o la programmazione sottosatura degli uffici tecnici per gestire le incertezze. La stessa impresa rete, centrale per Crippa (“l’impresa-rete diverrà un modello sempre più ricorrente”), caratterizzata da un forte decentramento (“il modello vincente per un’impresa-rete è quello di una ‘intelligenza diffusa’ che va preservata, pur nell’ambito di una concertazione di indirizzi e di linee-guida”) lascia qualche dubbio nel modello lean, che privilegia un’internalizzazione finalizzata ad un migliore controllo dell’efficienza del processo. In sintesi, la differenza sembra risiedere nel fatto che mentre le logiche lean tendono a ridurre l’incertezza tramite controllo e stabilizzazione, le logiche resilienti tendono a gestire l’incertezza tramite l’agilità e la ridondanza mirata. Le logiche resilienti sembrano pertanto più coerenti con le logiche della complessità. Credo che nella realtà aziendale si tratti di coniugare questi differenti approcci, tenendo presente che la razionalità limitata dell’uomo a volte rende più praticabili soluzioni di semplificazione (riduzione dell’incertezza) anziché di potenziamento (presunto) della capacità gestionali. Un punto di arrivo potrebbe essere quello tratteggiato da Crippa, quando dice che “la flessibilità può essere ottenuta attraverso la progettazione dei prodotti (architetture modulari, standardizzazione della componentistica, postponement), la strutturazione dei processi delle operations (flessibilità nella forza lavoro, organizzazione lean, strategie di sourcing) ed il disegno del network di supply chain (ridondanze mirate di capacità o scorte, strategie di distribuzione, etc.).”
Va considerato anche che stiamo forse per assistere ad una “reindustrializzazione” dell’occidente europeo, il che getterebbe una luce diversa sulla supply chain estesa. Al recente Manufacturing Forum, Bill Black, Head of Opex & Quality dell’ABB Group, ha sostenuto che ci si sta muovendo dalla globalizzazione verso un sistema produttivo più regionalizzato. Questo per tre motivi: 1. l’aumento dei costi del lavoro nei paesi emergenti e dei costi dei trasporti; 2. la maggiore richiesta di prodotti personalizzati e di tempi di consegna brevi; 3. il crescente impatto globale di eventi locali imprevedibili (come l’eruzione del vulcano islandese o lo tsunami in Giappone). Anche nell’articolo di Sianesi si evidenzia che “la delocalizzazione delle unità produttive nei paesi a basso costo del lavoro presenta luci e ombre”. Il ritorno ad una produzione regionale vuol dire potenzialmente rinforzare le strategie di internalizzazione e di prossimità dei fornitori propri degli approcci lean, riducendo l’ampiezza e la complessità della catena di fornitura.
   L’articolo di Monica Rossi del Politecnico di Milano e del prof. Terzi dell’Università degli Studi di Bergamo sintetizza i risultati di una ricerca empirica, condotta su un campione di 13 piccole e medie aziende manifatturiere italiane, sull’utilizzo dei concetti e degli strumenti del Lean Product Development. Da tale studio emerge che molte aziende integrano occasionalmente e in maniera non sempre strutturata e formalizzata le tecniche lean all’interno dei loro processi di sviluppo prodotto. Mentre approcci come il concurrent engineering e i modelli stage and gate risultano ormai pratica corrente, il Set-Based Concurrent Engineering, il coinvolgimento profondo dei fornitori, così come l’utilizzo di metodologie lean nello sviluppo prodotto sono poco diffusi. Una delle maggiori sfide che emerge dallo studio è la gestione della conoscenza. Risulta assai difficile riutilizzare la conoscenza prodotta, perché è tanto difficile catturare e rappresentare la conoscenza prodotta, quanto ripescarla in modi rapidi e semplici.
   Intrigante l’articolo sulla gestione delle prestazioni nell’esercito. Ci mostra come negli apparati pubblici, anche se di natura particolare come l’esercito, comincino a farsi largo strumenti propri della tradizione manageriale, come la Balanced Scorecard.
   L’articolo dell’avvocato Rotondi fornisce un quadro di lettura di quanto sta avvenendo alla Fiat. Dice l’autore che “la contrattazione decentrata FIAT … rappresenta sicuramente un passaggio importante ... in tema di relazioni industriali”. Sicuramente, in un’epoca di globalizzazione, la lotta sindacale locale risulta essere spuntata. Forse solo l’evoluzione naturale dei prezzi nei mercati del lavoro e/o la possibile reindustrializzazione di cui si è parlato più sopra, potranno riequilibrare una situazione nella quale ora è evidente lo squilibrio delle forze in campo.
  Infine l’intervista ad Alberti di Egon Zehnder International, che fornisce uno spaccato interessante sulle caratteristiche del manager degli inizi del XXI secolo. Si assiste ad una evoluzione dalla preponderanza di competenze più strettamente tecniche, ad un maggior interesse per quelle personali, come la tenacia, il pensiero strategico, la capacità organizzativa, l’intelligenza istintiva, la flessibilità.