quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
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Il CCPM è efficace?

Giancarlo Oriani


 

Già 6 anni fa, con un articolo di Patrick, quaderni di management si era occupata dell’applicazione della Teoria dei Vincoli di Goldratt alla gestione dei progetti (numero 13/2005). E’ ormai tempo di trarre qualche conclusione sulla base delle esperienze concrete. Questo cerca di fare l’articolo di Stratton che pubblichiamo in questo numero. L’articolo si basa sui dati di uno studio di caso longitudinale di un’azienda di costruzioni giapponese che ha applicato il Critical Chain Path Method, in particolare seguendo la guida “S&T” (Albero di Strategie e Tattiche), che è una guida all’implementazione recentemente pubblicata dallo stesso Goldratt. Le conclusioni dell’articolo sono che “il CCPM sta portando un contributo significativo al miglioramento delle prestazioni nella gestione di progetto a livello mondiale”. L’autore ritiene anche che la “guida S&T fornisca una metodologia di implementazione più completa, così come delle riflessioni più aggiornate su come il CCPM dovrebbe essere implementato – con particolare riferimento al controllo del flusso ed al miglioramento continuo”. Nell’articolo di Romberg sul Lean Product Development, pubblicato sul numero 40, si sosteneva che i sistemi di project management classici dovrebbero essere sostituiti dal CCPM. Nell’articolo di Stratton ci si pone la domanda circa la relazione tra la logica Lean e la Teoria dei Vincoli, concludendo che “sono necessarie ulteriori ricerche per … chiarire la relazione tra l’approccio ‘lean’ e i concetti della Teoria dei Vincoli, in particolare per quanto riguarda il controllo del flusso ed il miglioramento continuo”.
   L’articolo di Scalmana, basato sulla sua esperienza pluriennale come direttore di stabilimento di aziende di processo, affronta invece il tema dell’introduzione delle logiche Lean appunto nelle aziende di processo. Egli ritiene che si debbano avere delle accortezze nella sequenza di introduzione delle logiche lean, ad esempio partendo dai reparti di ripartizione e confezionamento, dove è più semplice mutuare le logiche e le esperienze del manifatturiero classico. In quest’ambito, i casi di successo evidenziano altresì che il primo passo è di mettere ordine nei reparti (5S) e, una volta raggiunti dei risultati intermedi soddisfacenti, avviare attività più evolute quali il visual control ed il flow&signalling. Solo dopo conviene passare al processo vero e proprio, lavorando alla riduzione dei tempi di set up e all’introduzione di KPI e di progetti di miglioramento continuo. Solitamente le procedure di produzione vere e proprie sono sufficientemente normate per quanto riguarda le operazioni standard a ricetta, ma risultano meno ferree nell’area della gestione dei processi fuori specifica e delle rilavorazioni. Questa è la successiva area di intervento, che può portare notevoli risultati in termini di efficienza. Vi sono peraltro anche inaspettatamente dei vantaggi rispetto all’industria manifatturiera: l’industria di processo ha, in media, un minor gap culturale da riempire, e quindi l’introduzione può anche risultare alla fine meno impegnativa.
   L’articolo di Vecchietti torna su uno dei temi classicamente cari a quaderni di management, cui la rivista aveva dedicato due articoli già sul numero 1: la dinamica dei sistemi e le simulazioni. L’autore, sulla base della sua lunga esperienza nell’amministrazione pubblica, sostiene che la “simulazione è una disciplina fondamentale per il city management”. Infatti, nonostante la pratica della simulazione dinamica non sia ancora diffusa nei consigli comunali, “la stagione di riforme sul federalismo fiscale e sulla produttività del lavoro pubblico dovrà trovare le risorse e gli strumenti per implementare il cambiamento, e la simulazione si presta ormai ad essere uno di questi”. L’articolo descrive un’esperienza reale condotta, nell’ambito di un Consiglio comunale di una città di medie dimensioni del Nord Est italiano, e si concentra in modo particolare sul simulatore dinamico demografico.
   Estremamente stimolante il tema dell’articolo di De Feo e Storti: come integrare le conoscenze acquisite dagli autori sui sistemi organizzativi con le ultime scoperte realizzate dalla neurobiologia. Riecheggia in particolare il tema della complessità nella misura in cui, come sostengono gli autori, “le organizzazioni pensate e semplificate come macchine, o al massimo come organismi stereotipati ed elementari, non utilizzano al meglio il potenziale operativo e creativo delle persone, a fronte di una qualità dei prodotti/servizi erogati ed erogabili di crescente complessità”. Perché, si chiedono quindi gli autori, “non utilizzare le metafore dell’organizzazione e del funzionamento del cervello e della mente per interpretare e guidare i fenomeni organizzativi?”. Il che rimanda non solo all’opera fondamentale di Morgan, ma anche, modestamente, all’intervista comparsa sul lontanissimo numero 3/2003 a Lars Kolind, l’inventore della “spaghetti organisation”, che pensava la propria organizzazione proprio come un cervello.
   Esiste un tema vecchio e mai sufficientemente approfondito: il dimensionamento dell’organico indiretto. Mentre per i diretti esistono metodi consolidati e sostanzialmente precisi, non altrettanto si può dire per gli uffici (dove ormai si trova oltre il 50% del lavoro dipendente). L’articolo di Mari, il primo di una serie di due, offre una rassegna di metodi di dimensionamento e descrive il relativo processo di pianificazione. Il concreto realizzarsi del processo viene esemplificato con quattro casi reali: un’azienda manifatturiera, una società di consulenza, un società di servizi locali, un’azienda municipalizzata di trasporto pubblico.
   Infine, la ballata di Provenzali. Un modo per alleggerire un po’ la rivista, senza smettere di pensare: il lavoro di squadra in poesia.

Buona lettura